L’incontro
Quante volte vi sarà capitato di incontrare un vostro vicino di casa con una valigia in mano? Probabilmente centinaia. Un uomo con una valigia. Un’immagine quotidiana così banalmente frequente nel flusso di segni nel quale siamo immersi. Un’immagine a suo modo evocativa: l’indizio di una partenza, l’allusione a un segreto. Mai però il protagonista della nostra storia avrebbe immaginato che quel vicino di casa portava nella valigia proprio il cadavere di sua moglie. Gregorio, non solo l’aveva salutato, quel vicino, ma si era anche sentito in colpa, viste le dimensioni notevoli della valigia, di non avergli dato una mano.
Le coordinate di cronaca sono Sant’Agata Li Battiati (Catania), mese di febbraio, anno 2007. Gregorio, sottufficiale dell’aeronautica in congedo, è il protagonista della nostra storia. Immaginiamolo come una persona relativamente felice (la felicità è sempre a frammenti) e relativamente benestante, comunque con una situazione economica che ha permesso a lui e alla moglie di fare prestiti e piccoli investimenti probabilmente per una somma (certamente non disprezzabile) di circa 50.000 euro. Tutti elementi che saranno determinanti per risolvere un giallo di breve durata, ma profondo quanto il fondo invisibile di una valigia, quella dell’animo umano.
Ma torniamo all’incontro sulle scale. Un incontro pirandelliano, in cui la realtà oggettiva si nasconde con feroce sarcasmo. Non ci si può davvero fidare di nessuno partendo da come appare, da come ci appare. In un certo senso neanche gli oggetti sono del tutto affidabili. Anch’essi, con impercettibili modifiche nella funzione e nell’uso, possono trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. Anche di mostruoso. Ecco allora la visione soggettiva di Gregorio, il nostro protagonista, così come l’ha raccontata agli inquirenti:
Ho visto quell’uomo uscire da casa e trascinare la valigia, un grande trolley con delle ruote che si sono rotte. Non pensavo che dentro ci potesse essere mia moglie… E pensare che dopo mi ero dispiaciuto di non averlo aiutato a portare la valigia nella sua auto… si vedeva che era pesante… con quel bagaglio grande e pesante gli ho chiesto: «Che fa, parte?». Lui si è fermato e mi ha salutato, si è anche avvicinato. Le due ruote che si erano rotte scendendo dalle scale lui le ha raccolte e le ha portate con sé. Non potevo immaginare che dentro quella valigia ci fosse mia moglie. Dopo mi ero pentito di non averlo aiutato. Mi sembra un incubo… Quella mattina mi sono svegliato di soprassalto, sentivo delle grida. Non ho realizzato che quella voce che sentivo potesse essere di mia moglie. Invece era lei che litigava con il suo assassino mentre la stava strangolando.
Non bisogna essere psicologi per notare che questo racconto, di un uomo evidentemente sotto shock, contiene ripetizioni ossessive. La parola «moglie» insegue il nostro protagonista come un tormento, come se lei dall’aldilà lo stesse rimproverando con il dito puntato anche se un po’ rattrappito dalla compressione del trolley. Lo rimprovera, forse, di aver dormito troppo, di non averla protetta, di essersi fidato delle persone sbagliate. E poi questo senso di pesantezza che ritorna, innaturale, schiacciante. Le ruote rotte e la vita fatta a pezzi. La ricchezza dell’esistenza compressa e violentata in quella bara innaturale e improvvisata. Ma che bisogno c’era di fare una messa in scena così macabra, così macabra che forse non sarebbe venuta in mente neanche a un genio del brivido come Hitchcock? La risposta per il momento è prematura, prima dobbiamo approfondire la dimensione pirandelliana della convivenza degli esseri umani in un condominio.
Nell’universo poetico di Pirandello, a un certo punto, il cielo di carta viene bucato con un dito. Nella scenografia delle scale e del condominio, il dito che buca la convenzione delle forme è l’inconscio del nostro povero Gregorio. Che sente. Che guida l’apparente lapsus, l’apparente scortesia: il rifiuto, annesso al senso di colpa, di non aver aiutato quell’uomo a trasportare il cadavere della moglie.
Il punto di vista della vittima
Della vittima si parla moltissimo, ma rimane come sullo sfondo, materia sempre più inerte che resta viva solo nell’agitazione dei «vivi»: investigatori che cercano, assassini che fuggono, giornalisti che frugano, lettori che guardano alla finestra del testo, spettatori che leggono il mondo riflesso dallo schermo di casa. La vittima non agisce più perché è definitivamente «agita». Questa sua passività si cristallizza nel momento in cui qualcun altro compie su di lei l’azione più tragica: toglierle la vita.
Ed è sull’azione e sul suo attore che tradizionalmente si concentrano le attenzioni dell’indagine, del sistema penale, della criminologia. Sul reo e sul suo reato, sulle dinamiche e sulle motivazioni del suo gesto criminale. In controtendenza, in mezzo a un esame tanto razionale del male, è nata una vera e propria nuova branca, la vittimologia, vale a dire lo studio del profilo delle vittime come specchio delle tendenze dei serial killer. Questo, diciamo così, per prevenire i loro gusti macabri, le loro inclinazioni, e salvare qualche essere umano in più giocando d’anticipo. Non ci si può strappare i capelli sul piano morale, ma è già qualcosa.
La nostra vittima, nella sequenza del racconto che abbiamo fissato, oltre che passiva è anche scomoda, una scomodità che per sua fortuna viene percepita solo dal nostro sguardo. È in una valigia e si chiama, meglio, si chiamava, Concetta Barbagallo: sposata, madre di due figli, infermiera professionale all’Ospedale Garibaldi di Catania. Aveva cinquantacinque anni, proprio come suo marito, Gregorio Cannizzaro. Un’esistenza normale, dignitosa, che non sarebbe mai finita in cronaca se non avesse deciso di prestare dei soldi a un signore che abitava nel suo palazzo.
Il movente è tutto
Questa storia, poi, non avrebbe attirato nemmeno l’attenzione delle agenzie di stampa se non ci fosse stato il coup de théâtre della valigia. Ma soprattutto se le antenne di noi «cacciatori di sintomi» della realtà , medici generici di un mondo profondamente malato, non fossero già state allertate dalla strage di Erba. Perché, dopo Erba, tutti i dati frammentari su questo tipo di omicidi potevano essere classificati, inseriti in un flusso, in una tendenza, in un grafico in grado di descrivere, almeno provvisoriamente, un frammento di ciò che ci circonda.
Qualcosa di simile era già avvenuto in passato, quando, il 27 dicembre 1996, la povera Maria Letizia Berdini fu uccisa da un sasso lanciato da un cavalcavia in Piemonte, e così di colpo scoprimmo che l’Italia era piena di pazzi che si divertivano a colpire le auto in corsa con qualsiasi cosa avessero a disposizione. Questi pazzi c’erano già e non ce n’eravamo accorti? La nostra sensibilità era cambiata grazie al potere traumatico e conoscitivo di una tragedia? Eravamo noi comunicatori a scatenare l’effetto emulazione? Nessuna di queste ipotesi sta in piedi da sola, tutte insieme sì. Oppure, quando abbiamo cominciato a scoprire l’inferno della famiglia, che progressivamente aveva sostituito quello sartriano degli altri (l’enfer, c’est les autres). Così, con malinconia, abbiamo imparato che il nido antropologico della società occidentale, la nostra casa, è il luogo più insicuro in cui vivere. In base alle statistiche, infatti, le quattro mura proteggono soprattutto stupri, abusi, smanie pedofile, tradimenti e incomunicabilità .
Come l’ormai fatidico 11 settembre, anche la mattanza di Erba ha irreparabilmente cambiato la nostra consapevolezza: le tragedie individuali delle vittime, ma anche la ferita nella storia collettiva, hanno cambiato la nostra percezione della realtà . E così, una volta organizzati e interpretati i dati – c’era da aspettarselo, però –, il condominio è diventato meno sicuro. Dopo Erba stiamo, come si dice, all’occhio. E al nostro occhio non poteva sfuggire la vicenda di quella donna ammazzata e poi chiusa in una valigia. Chiusa in una valigia per quale motivo?
Il movente è tutto. E il movente, in questo caso, non è un mistero, semmai il più antico motivo di dissidio nella storia della difficile convivenza tra gli uomini. Stiamo parlando di soldi: 50.000 euro. Una discreta somma che la donna avrebbe dato a chi l’avrebbe poi strangolata perché acquistasse una casa per la nipotina a un’asta giudiziaria. E già qui la vicenda s’intorbida. Avete presente il clima delle aste giudiziarie? Neanche i grandi romanzieri francesi della seconda metà dell’Ottocento riuscirebbero a rappresentarlo con sufficiente precisione. Neppure Émile Zola che, quando descrisse la vita degli esseri umani ammassati negli agglomerati delle metropoli, che qualcuno chiama megalopoli e qualcun altro, come me, necropoli, scioccò i contemporanei violentando l’asetticità della parola con i miasmi del ventre di Parigi.
Avete presente cosa si dice delle aste in questa epoca di caro-mutui? Dove non arrivano le rate, arrivano i pignoramenti. In costante, vertiginoso aumento proprio nel momento in cui scriviamo queste pagine. Sarà poi vero che le banche, legittime proprietarie delle case che prima permettono di comprare ma poi riprendono in fretta alle prime difficoltà , sono in conflitto d’interesse (vero e non ideologico) con le società che battono le aste per le stesse abitazioni pignorate? Il dubbio, le domande, il condizionale sono i primi arnesi che ho trovato nella scatola degli attrezzi del giornalista. Una scatola che mi porto sempre dietro.
L’assassino
Non me ne vogliano le banche se le ho citate in questo contesto. Capiranno che la mia è una necessità simbolica. Il fatto è che mi turbano queste entità che prima permettono ai sogni di avverarsi e poi li trasformano in viaggi all’inferno. E non me ne vogliano neppure gli agenti immobiliari, anche loro strettamente legati al mondo delle aste giudiziarie e dei prestiti bancari, ma anche a quello dei personaggi della nostra storia. Nessuno fa di tutta l’erba un fascio. I fatti però sono i fatti, e il terzo protagonista della vicenda, quello più attivo, l’assassino, era un ex agente immobiliare.
Gianluca De Mari, trentacinque anni all’epoca del delitto, originario di Pozzuoli, ma ormai da tempo residente in Sicilia, a Sant’Agata Li Battiati, paese della cintura urbana di Catania, e domiciliato, ed è questa la notizia importante ai fini della nostra storia, nel palazzo della sua vittima.
Da giovane ho lavorato con il grande regista russo Nikita Michalkov. Era in Italia per mettere in scena in teatro assieme a Marcello Mastroianni, un altro mito, Pianola meccanica, celebre pièce tratta da Čechov, e di quest’esperienza straordinaria scrissi un saggio, Il taccuino delle prove. Tra le tante cose affascinanti che ho sentito dire al regista c’era anche questa: le azioni dei personaggi non sono importanti in sé, l’importante è capire come arrivano a compierle. È lì la specificità di ognuno, di ogni singolo essere umano come di ogni carattere. È lì che la regia scompone, con arte atomizzante, la dimensione molecolare dell’anima.
Ecco perché spesso la cronaca nera, affidata a giornalisti che praticano la sfera lineare, orizzontale, del racconto, risulta insoddisfacente. Perché non riusciamo a sapere com’è andata con precisione, perché non siamo nella condizione di conoscere i pensieri, le passioni, le turbolenze che precedono un delitto. Togliere la vita a un altro essere umano è un gesto scandalosamente complicato che può diventare scandalosamente banale. Lo sostengono, con abbondanza di particolari, i criminologi. A riscattare dall’indifferenza il sacrificio della vittima è la possibilità di conoscere i passaggi psicologici. Episodi da due righe d’agenzia, come questo, possono nascondere abissi insondabili.
In ogni caso il nostro ex agente immobiliare non era in grado di restituire la somma avuta da Concetta. Probabilmente perché aveva contratto ulteriori debiti. Il presunto affare, all’asta, era sfumato. La donna rivoleva il denaro. All’ennesima richiesta, lui l’ha strangolata. Non una grande somma che potesse giustificare (ammesso che sia mai possibile) un’uccisione, ma si è visto di peggio per cifre minori. È qui che diventa evidente come gli studiosi di economia, che non si abbassano mai a simili livelli, non capiscano la potenza dei soldi. Ed è qui che scatta invece la creatività dell’assassino: mettere il cadavere nella valigia e fingere una partenza improvvisa. Non si dica poi che gli agenti immobiliari sono privi di fantasia. Semmai è opportuno precisare che il nostro killer conosceva ben poco il linguaggio dei segni, e nella sua fuga di segni ne ha disseminati fin troppi.
Si reca al pronto soccorso dell’Ospedale Cannizzaro di Catania per farsi medicare alcune escoriazioni al viso e una lesione al dito. Versione ufficiale: era stato aggredito da un cane. Invece quelle erano le tracce lasciate su di lui dalla povera vittima, che evidentemente si era difesa lottando. Dopo la denuncia della scomparsa di Concetta, gli agenti non ci hanno messo molto a fare dell’inquilino Gianluca De Mari il sospettato numero uno. La fuga con il suo fuoristrada è durata poco. L’uomo è stato fermato in Campania e riportato in Sicilia. Ha confessato il delitto, ha ammesso tutte le sue responsabilità . Non solo, ha anche accompagnato i poliziotti nel luogo dove «aveva abbandonato la valigia». Una zona desertica di sciara lavica dell’Etna. Il vulcano che spaventa quando si risveglia, che brucia quando vomita lava, aveva accolto nel suo grembo, nel suo silenzio immenso, i resti della povera Concetta.
Claudio Brachino