Senza farne un puro atto privato, ma dando qualche spunto filosofico ed etico a tutti quei lettori che, per le più svariate ragioni, sono sensibili al grande mistero della mancanza. E più precisamente della perdita di un padre, del Padre.
La maiuscola sottolinea tutto l’insieme di simboli e di metafore che questa parola antica si porta dietro. Il mio, di padre, è morto come dicevo un anno fa, a 85 anni , in un hospice di Viterbo, mia città natale, mentre io ero al lavoro a Milano.
Come spesso succede agli emigrati, non sono riuscito a tenergli la mano negli ultimi momenti. Quelli spaventosi del trapasso.
E’ vero che lui già dormiva, in coma. Ma è anche un fatto che io non ero lì. Quando l’ho visto, la sera tardi, era già nella bara, con il vestito e la cravatta migliori, come vuole la tradizione di noi contadini dell’Alto Lazio, contadini etruschi.
I suoi splendidi occhi azzurri, penetranti, ironici, e non ereditati purtroppo, erano chiusi per sempre. Sono stato lì a lungo, cercando di capire, al di là del dolore, che cos’era quella cosa lì davanti a me che chiamiamo morte.
Mi è tornata alla mente una splendida lezione giovanile all’Università di Roma su Heiddegger. La morte, diceva il filosofo tedesco, è una non esperienza. Chi la prova, nello stesso momento in cui la prova, cessa di essere un soggetto. E quindi non può avere più esperienza di nulla.
Rimane la morte, per gli altri, come angoscia. O la morte che si annuncia, come nei malati di tumore, il demone che ha mangiato rapidamente mio papà . Un uomo di un metro e ottantacinque, bello, castano, vitale, ridotto a un pugno di ossa spigolose.
L’ultima volta che gli ho fatto la barba, all’hospice dell’Istituto dei tumori di Milano, dove il grande Prof. Leo ha combattuto per allungargli la vita, ho fatto l’errore di dargli uno specchio.
Lì lui ha capito che c’erano ancora solo pochi giorni. L’ha capito e non mi ha detto niente. Ma sapeva ed era cosciente, senza lagne e senza tragedie.
Allora mi è venuto in mente un altro grande autore della giovinezza, Borges, che descriveva il tempo futuro di un suicida come un tempo senza suspence, senza sorprese, senza alcuna variazione di ciò che è già deciso. Così era la situazione di mio padre, e la mia.
Non aveva più interesse per l’esterno, via la tv e gli amati talk politici. Era stato lui, ferroviere e sindacalista, a farmi scoprire nelle infuocate discussioni del dopo-lavoro, la passione per la politica. Pur avendo la quinta elementare leggeva i grandi editorialisti con più acume e competenza di molti colleghi boriosi.
Io sono un distratto cronico e un cerebrale, mio padre è stato il pungolo perenne delle cose pratiche, amministrative, burocratiche. Quello che mi ha lasciato di prezioso, però, è paradossalmente un tesoro immateriale, quella che Foucault chiamava la scatola degli attrezzi: un insieme di valori che servono per vivere e non perdersi nella selva oscura dei rapporti e di un lavoro bello ma spietato.
Si è scritto molto sulla scomparsa di Nadia Toffa, una scomparsa che giustamente ha commosso tutta l’Italia. Di lei mi rimane soprattutto la celebrazione per la vita fino all’ultimo. Allora vorrei concludere con questa scena.
Negli ultimi giorni quando già non mangiava più e veniva alimentato dalle macchine, portavo a mio padre un gelato. Sempre lo stesso. Una coppetta di fragola e fior di latte.
Gli mettevo il bavaglino come i bambini e lo imboccavo, lentamente, fino a raschiare il fondo, come si dice. Lui aveva piacere di quel freddo nella bocca, io avevo piacere di dargli quell’ultimo piacere. Anche nella fine c’è una sorta di gioia.
Anche se a parti invertite, quante volte il mio papà mi avrà pulito la bocca sporca di gelato? Anche sul limite della vita, l’amore di un padre e di un figlio rimane nello scrigno nascosto dell’in-dicibile.
Ora sei lassù e mi guardi. Io sono nello stesso tempo più uomo e più solo. Mi mancherai sempre. Ogni tanto ti vedo, nella facce degli altri, o nei sogni, mi piace pensare che vuoi continuare a dirmi le cose importanti così.
Cosa ne pensi?